Donato Sabia - scomparso ieri all'età di 56 anni - era un talento grezzo. Tanto grezzo che scelse di restare grezzo. "Non gli si poteva non voler bene", ha detto il presidente della Fidal Alfio Giomi. Spontaneamente vinse, intenzionalmente smise. Ma i suoi erano anni complicati. L'atletica, non solo italiana, possedeva ancora quel suo bel respiro provinciale, era fatta di tante piccole realtà locali, oltreché dai grandi gruppi militari. Delle più moderne strutture si potevano vedere solo le fondamenta, non ancora il risultato finale. I Mondiali erano appena cominciati (la prima edizione nel 1983), i calendari erano ben diversi da quelli attuali.

A 20 anni e da quattrocentista, Sabia si caricò sulle spalle allenamenti spaventosi, come ogni quattrocentista con ambizioni e talento. La durata dell'esperienza di un quattrocentista è tuttavia imprevedibile. L'unica certezza è lo sforzo, fisico e mentale. Quel che si ignora è: quanto a lungo si potrà sopportare? Quando sarà che il corpo dice basta? Specie se si aumentano le distanze, si passa gli 800 metri, che proprio in quel periodo cominciavano ad essere riconosciuti come "velocità prolungata", più che mezzofondo, l'interrogativo può succhiarti energie. Una volta Mauro Zuliani, ex primatista italiano dei 400 metri disse: "Per dieci anni, dopo che smisi, non riuscii più nemmeno a guardare una gara dei 400 in televisione". Tanta era la nausea.

Sabia è riuscito, spostandosi nel doppio giro di pista, a correre due finali olimpiche (Los Angeles e Seul) sempre dalla sua posizione, rigorosa, di figlio del profondo sud, in un imbuto di discrezione e di ancestrale timidezza che erano la sua cifra umana e sportiva. Il suo personale sugli 800 è ancora il terzo tempo italiano di sempre dietro Fiasconaro e Longo (1'43"88). E ancora brilla un suo 500 metri, distanza cosiddetta "spuria", che corse ottenendo addirittura il momentaneo primato del mondo (1'00"08). Ma il suo corpo era torturato, martoriato dagli acciacchi precoci. Gli anni con Carlo Vittori. Altissimi livelli, certo, ma usuranti. Poi Sandro Donati, che mitigò i carichi. Ma a 27 anni Sabia aveva dolori ovunque. Si infortunava continuamente. Almeno tre volte in modo importante. Girava voce che avesse rifiutato una pratica dopante (testosterone). Quella del suo gran rifiuto del doping è rimasta una vicenda torbida e sgradevole. Forse aveva solo tirato troppo la corda. E spinto sull'acceleratore della fatica anche quando, così almeno raccontava qualche suo compagno di ritiro a Formia, sembrava che avesse perso entusiasmo. Così ha messo.
E quando manca la voglia, la pista ti brucia i tendini e la testa. Disse Sabia qualche tempo fa: "Qualche mio coetaneo si ricorda di me, avendomi seguito in televisione. Mi imbarazza, per la mia timidezza. Ma anche perché il ricordo dei miei successi ha un gusto agro, per via di una parabola interrotta, che mi dà un senso di incompiutezza, per non aver potuto esprimere il mio talento a pieno". Parole che ci rimandano il sapore acido di un tempo vissuto da eterno insoddisfatto, nel pieno rispetto della sua natura di diamante grezzo.

Sezione: Primo Piano / Data: Gio 09 aprile 2020 alle 20:35 / Fonte: La Repubblica.
Autore: Redazione TuttoPotenza / Twitter: @tuttopotenza
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