Oggi 25 aprile è uno dei più surreali della storia della repubblica italiana. Il giorno in cui si festeggia la liberazione del paese dall’occupazione nazifascista è diventato qualcosa che crea imbarazzo. E mentre il governo censura su Scurati su Rai3 adducendo a – improbabili – questioni di cachet (ma è davvero quello di cui si deve occupare un primo ministro?) e un ministro con la passione dei formaggi ci spiega che l’antifascismo non solo non serve, ma uccide; noi ci teniamo a dire la nostra: raccontando vicende che hanno legato il calcio all’antifascismo e alla Resistenza.
Berni e Frigo
Bruno Neri negli anni 30 fu uno stimato mediano, da 187 presenze con la Fiorentina e da 65 con il Torino (squadra con cui finì la sua carriera per infortuni) e 3 presenze in nazionale dal 36 al 37. Ed era antifascista. Voluto con forza alla Fiorentina dal gerarca fascista Berta, alla inaugurazione dello stadio che avrebbe portato il suo nome (e ora quello di Dall’Ara), i giocatori scesero in campo e fecero il saluto romano alle autorità, o meglio, tutti tranne uno: Bruno Neri. A Torino invece lo vuole Erbstein, ungherese ed ebreo che nel 1940 scapperà per via delle legge razziali e alla fine della guerra guiderà il Grande Torino dalla panchina fino alla tragedia di Superga.
Con l’armistizio del 1943 Neri decide di unirsi alle bande partigiani, vicecomandante del battaglione Ravenna con il nome di battaglia di Berni. Ma anche durante la resistenza attiva l’amore per il calcio non si placa: partecipa con la maglia del suo Faenza al campionato dell’Alta Italia. E con quella maglia giocherà fino al 7 maggio 1944, un mese prima della sua morte. Impegnato in un’azione di recupero di munizioni e radio per altre brigate partigiani, verrà ucciso in uno scontro a fuoco con le SS presso l’eremo di Gamogna, sull’appenino tosco-emiliano.
Una sorte che era capitata anche ad Armando Frigo il 10 ottobre 1943. Giovane talento promettente prima della guerra, inizia al Vicenza a muovere i primi passi fino alla chiamata della Fiorentina. Nel 1941 si interrompe la sua carriera da calciatore perché accettato la chiamata al fronte da parte dell’esercito italiano. L’8 settembre 1943 si trova in Croazia e quando viene annunciato l’armistizio e subito il contingente italiano deve fare i conti con i bombardamenti dell’aviazione tedesca. Catturato dai nazisti, muore fucilato pur di non rivelare la posizione degli altri commilitoni che avevano deciso di tornare in Italia.
Anche lo Scudetto del 1944 dello Spezia divenne un metodo di resistenza: con il paese diviso in due, la federazione non fermò mai il gioco – per quanto incredibile possa sembrare – e lo Spezia, o meglio: la squadra dei vigili del fuoco di Spezia, per salvare i pochi calciatori rimasti dalla leva obbligatoria dei repubblichini, arrivò a quell’insperato successo (mai riconosciuto in seguito). Un’escamotage, quello dei liguri, non del tutto unico: anche la Juve e il Torino durante l’occupazione cedettero i propri calciatori ancora disponibili alla Cisitalia (azienda di macchine torinese) i bianconeri e alla FIAT i granata.
Una delle storie più tristi che lega il Calcio alla Seconda Guerra Mondiale, al fascismo e alla Resistenza è sicuramente quella di Arpad Weisz. Allenatore ungherese ed ebreo, un tecnico come non se ne sono mai visti dopo a Bologna (forse solo oggi), guiderà i felsinei in tre anni a vincere in Italia lo Scudetto (scucendolo alla Juve del quinquennio) e in Europa al Trofeo dell’Expo di Parigi. Poi il 1938, le leggi razziali e la fuga dall’Italia. Arriverà in Olanda, portando il piccolo Dordrecht dalla zona retrocessione a due quinti posti in 3 anni, mostrando ancora le sue qualità da tecnico. Poi però con l’occupazione tedesca non ci sono più vie di fuga e Weisz con la sua famiglia vengono mandati ad Auschwitz, dove moriranno nelle camere a gas.
Chiudiamo con un bambino del lodigiano. Figlio di una famiglia da sempre antifascista e che nel 1943, all’armistizio e all’inizio della Resistenza ha appena 8 anni. Intervistato su quegli anni raccontò che: «i miei erano lavoratori che dovevano guadagnarsi la pagnotta. Poi c’erano gli altri, i figli del fascista del paese, che erano i signorini con i soldi. Noi, invece, eravamo ruspanti e pensavamo alla Liberazione». A cavallo della sua bicicletta fece da sentinella partigiana, portando cibo e munizioni alle bande nascoste sui monti. Finita la guerra il bambino del lodigiano divenne un “Core de Roma” e ancora adesso è il terzo giocatore per numero di presenze in giallorosso dopo Totti e De Rossi. Si chiamava Giacomo Losi ed è mancato pochi mesi fa.
Per lui, per Neri e Frigo, per lo Spezia del ‘44 e Arpad Weisz, il 25 aprile vanno ricordate le loro storie, il loro coraggio e quanto hanno fatto per questo paese.
Autore: Redazione / Twitter: @tuttopotenza
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