Chi ricorda la storia di Peppino lo Zoppo? Nessuno. E di sua moglie Concetta, del Turco, di Ciccio e del Drago? Nemmeno. Un po’ perché questi nomignoli da barzelletta in bianco e nero nascondono persone vere. E molto per la rimozione collettiva della più grande truffa mai fatta allo Stato. Al suo Monopolio più popolare: il Lotto. Violato per tre anni consecutivi, dal 1995 al 1998, da questo pugno di soliti ignoti partiti dai palazzoni e dai bar di Cinisello Balsamo alla conquista del sogno dell’italiano medio: sbancare le casse dell’Erario a colpi di terni e cinquine. Sotto gli occhi di tutti.
«Perché è nell’ordinario che accade lo straordinario, perché in Italia è ordinario che nessuno controlli» dice Fausto Gimondi, che ha ripescato quei personaggi e quei meccanismi dall’armadio dell’oblìo e li ha messi in fila in Fortuna criminale, il suo primo romanzo in uscita per Longanesi.
Era la metà degli anni 90 quando un usciere dell’Intendenza di Milano trovò il modo di truccare le vincite del Lotto. Era lui che aveva il compito di allineare le 90 palline che contenevano i numeri e che finivano nel cesto rotante da dove la mano di un bimbo bendato le estraeva. Renderne 5 più lucide e contare sulla manina guidata del bimbo, figlio di un complice, che le estraeva fu facile. Così come incassare le vincite.
Il problema fu il passaparola. La voce passò dai complici agli amici, agli amici degli amici e così via. Fino ad arrivare a un gruppo di criminali che pretendevano i numeri senza troppo attendere. A bloccare il tutto ci pensò un’inchiesta della magistratura che costrinse “i vincitori” a restituire i soldi: una sessantina di miliardi di lire.
Il protagonista in questo labirinto è “Mario Santini”, alter ego di un amico di Gimondi, come lui cresciuto nella Cinisello degli immigrati in mezzo alla stessa umanità. Dal mito fuori tempo della rivoluzione e dalle canne ai giardinetti, “Mario” si ritrova ricchissimo prima dell’inevitabile caduta. «È lui che mi racconta la storia, ma ci è voluto tempo» spiega Gimondi «e non credo mi abbia detto tutto. E non solo perché quello che fece è un reato».
Quasi si finisce a tifare per quei poveri e ingegnosi diavoli e per i loro piani in dialetto. «Provo empatia per quei personaggi e non li ho voluti giudicare. Ma questa è una storia solo italiana, non sarebbe mai potuta accadere in Austria o in Svizzera, dove già nel 1970 vedevi in tv il meccanismo delle palline dal tubo, ma nemmeno in Grecia o in Bulgaria. È figlia del modo barocco con cui in questo Paese si fanno le leggi, dando la possibilità a un impiegato statale, come Peppino lo Zoppo, che ha l’ingegno e la saggezza dell’uomo della strada, di scoprire che nessuno controlla. Il trucco è tutto lì. È nell’ordinario che accade lo straordinario, perché in Italia è ordinario che nessuno controlli».
E qui, alzando lo sguardo da Ciccio e Concetta e guardando al sistema, l’empatia si esaurisce. «Il magistrato che seguì la vicenda» spiega Gimondi «era Walter Mapelli. Dichiarò che, quando seppe della truffa, era scettico: gli sembrava impossibile che un meccanismo tanto presidiato potesse essere alterato con facilità e per tanto tempo. Eppure andò avanti. Nonostante le pressioni allarmate per le possibili ripercussioni sulle giocate e sugli utili del Lotto».
Uomo tutto d’un pezzo, uno dei rari a voler andare in fondo. «Qualcuno, nei tre anni della truffa, si era posto delle domande. Pochi: il giornalista Giovanni Chiades del Gazzettino e un investigatore privato veneto, che andarono a far domande tra le ricevitorie. E un consigliere d’amministrazione dei Monopoli di Stato che però, visto che i verbali e le procedure erano a posto, lasciò stare.
Si torna alla domanda rimasta in sospeso: com’è potuto accadere? «Sì, mi sono chiesto se qualcuno sapesse e non fece nulla», concorda l’autore. «Ci fu un’audizione straordinaria in commissione al Senato a un mese dagli arresti con l’allora direttore generale dei Monopoli e l’amministratore delegato di Lottomatica. E le risposte, anche oggi, fanno sorridere: si attribuirono le vincite a Milano al fatto che i giocatori fossero particolarmente abili nelle analisi statistiche, una roba da terrapiattisti del Lotto. Non esiste. Io non so se i dirigenti erano corrotti. Non credo. Ma colpisce l’indifferenza, la logica del meglio non toccare».
Ci fermiamo a un passo dal provare affetto anche per quei tempi e quella Milano non ancora digitale. «Ho un imprinting ma non ne ho nostalgia, ricordo che tra quei bar giravano anche gli Epaminonda e i Turatello. E so che la Milano di oggi è molto più sicura di allora. Quella violenza, i sequestri e le rapine a mano armata, non ce li ricordiamo più».
Autore: Redazione / Twitter: @tuttopotenza
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