La faccia di Gabriele Gravina all’intervallo e a fine partita a Oslo era quella di un uomo svuotato, pietrificato dalla realtà che si ostina a non voler vedere. Una maschera di cera, incapace di parole, chiuso nel silenzio come ormai è consuetudine ogni volta che la Nazionale precipita nell’abisso. Ma stavolta, quel silenzio pesa. Stavolta, qualcosa da dire c’era eccome.
Sotto la sua gestione, l’Italia ha sì vinto l’Europeo nel 2021, ma ha anche mancato due qualificazioni mondiali consecutive— 2018 e 2022 — e ora, dopo la disfatta in Norvegia, rischia concretamente la terza esclusione di fila da una Coppa del Mondo. Sarebbe un punto di non ritorno. Una Caporetto calcistica. E se Luciano Spalletti ha le sue responsabilità tecniche, il vero nodo politico del nostro calcio ha un solo nome e cognome: Gabriele Gravina.
Il ko di Oslo (3-0, senza appello) non è un incidente. È la diretta conseguenza di una crisi sistemica che Gravina non ha mai saputo né voluto affrontare. È stato lui a non dimettersi dopo il tracollo con la Macedonia del Nord. È stato lui a confermare Roberto Mancini per troppo tempo, e poi a consegnare in fretta e furia la panchina a Spalletti, scaricandogli addosso tutte le aspettative, senza un progetto tecnico chiaro. E adesso, con l’Italia quarta nel girone dietro Norvegia, Israele ed Estonia, ci aggrappiamo ai playoff, sperando che stavolta non si trasformino nell’ennesimo boia.
Ma Gravina che fa? Resta. Si barrica dietro la sua rielezione (oltre il 98% dei consensi lo scorso febbraio), come se fosse un titolo eterno, impermeabile al fallimento sportivo. E intanto il movimento crolla: i settori giovanili languono, i club sono in crisi strutturale, le riforme promesse — dal numero degli stranieri al salario minimo in Serie C — evaporano nel nulla. L’unica costante è la sua presenza.
Ad ascoltare i cori di protesta degli 850 tifosi azzurri allo stadio Ullevaal non c’era solo Spalletti. In tribuna, accanto ai suoi collaboratori, c’era anche lui, Gravina. E quelle urla, quella rabbia, erano per entrambi. Alcuni sostenitori, sotto la pioggia, si sono fermati nei pressi dei pullman per farsi sentire. Nessuna risposta. Nessuna parola. Solo silenzio e scorta.
Eppure la storia recente ci dice altro: nel 2014, Abete lasciò dopo l’umiliazione in Brasile. Nel 2017, fu Tavecchio a dimettersi dopo la sconfitta con la Svezia. Gravina invece è rimasto sempre lì, sopravvivendo a ogni batosta. Ora però anche il suo tempo sembra essere scaduto.
Lunedì a Reggio Emilia, l’Italia sfiderà la Moldova. Una vittoria è d’obbligo, ma dopo Oslo sarebbe poco più di un brodino. Il vero banco di prova è a novembre, nello scontro diretto contro la Norvegia. Servirà un miracolo sportivo per evitare l’ennesima condanna ai playoff, già fatali due volte.
Ma il problema non è solo la classifica. È la credibilità. È l’inerzia. È l’incapacità cronica di programmare. Se Gravina ha ancora un briciolo di lucidità istituzionale, dovrebbe almeno aprire un confronto, prendersi le sue responsabilità pubblicamente e dire chiaramente quale direzione vuole dare alla Figc. Perché il Mondiale, forse, è già perso. Ma il futuro del calcio italiano non può esserlo per inerzia.
Se si aspetta ancora, il rischio è quello di arrivare alla primavera del 2026 a mani vuote. Con un’altra generazione azzurra costretta a guardare il Mondiale dal divano. E Gravina, ancora una volta, in tribuna. In silenzio.
Autore: Redazione
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