C’è stato un periodo, molto lungo, in cui la domenica a Messina in ventimila, forse qualcuno in più, ci si alzava dalla tavola a mezzogiorno, rinunciando a pasta al forno, richiamino, secondo di carne con abbondante contorno, pasticcini e cannoli a chiudere, in favore di un veloce panino. Perché c’era un rito da compiere. Andare “al campo”. Non lo stadio, non ad assistere alla partita. “Al campo”, proprio.
Quel campo era il Giovanni Celeste, stadio nato senza copertura alla tribuna coperta, senza curve propriamente dette (e infatti si chiamavano “prato” o “popolari”, la definizione “Curva sud” e “Curva nord” venne dopo), e senza tribune stabili: la gradinata era composta da una serie di tavoloni che poggiavano su tubi innocenti, giusto per dirne una.
A cavallo tra il 1984 ed il 1985, con l’acquisto della squadra da parte di Salvatore Massimino, catanese ma con abbondanti trasfusioni di sangue giallorosso nelle vene, e le velleità di promozioni della squadra, che mestamente navigava a vista, parcheggiata tra la serie c2 e la serie D, in mano al futuro boss di Cosa Nostra Michelangelo Alfano e a piccolissimi imprenditori tipo Lamberto Sapone, per il Celeste, sventuratamente omonimo di un noto cantante neomelodico, si decide un lifting: una famigerata copertura per la tribuna che farà sacramentare migliaia di spettatori, impediti alla vista di tutto il terreno di gioco dai pilastri che la sorreggevano, in spregio a tutte le norme strutturali in vigore in ogni altro stadio del mondo, l’abbandono di tavoloni e tubi innocenti per la gradinata, adesso in salda muratura, e una “vera” curva, da novanta gradi di raggio, tra tribuna coperta e “popolari” lato mare.
Pronto giusto in tempo per assistere alla prodigiosa cavalcata verso la serie B del 1985/86, il Celeste era omologato per dodicimila spettatori scarsi: non furono mai meno di ventimila, anche qualcuno in più, duemila dei quali ammassati nei corridoi a ridosso del campo, altrettanti direttamente in campo e qualche centinaio disposti tra scalini, paratie, intercapedini e sfoghi. E poi un posto privilegiato: sulla sommità del traliccio dell’illuminazione (anch’essa inaugurata dal lifting) piazzato tra la gradinata e la futura curva nord, il posto era riservato a Diego Schepis, che arrivava tre ore prima della partita a piazzare la batteria di petardi che annunciavano l’ingresso delle squadre in campo: la famosa “santa Barbara di Diego Schepis”, come il mai troppo compianto Mino Licordari aveva cura di ricordare ogni sacrosanta telecronaca.
Era la squadra del professore Franco Scoglio, degli incredibili, per la categoria, talenti di Franco Caccia, Beppe Catalano, Nicola Napoli, Antonio Bellopede e Totò Schillaci, che al Celeste massacrò di gol qualsiasi squadra nella serie B del 1989 prima di approdare alla Juventus e rischiare di vincere mondiale e pallone d’oro (accontentandosi del primato di capocannoniere in coppa del mondo).
Arrivò il 1990, e nell’orgia di miliardi spesi per il mondiale, qualche briciola toccò anche a Messina, per il nuovo stadio necessario alle ambizioni della squadra, che nel frattempo stentava in B, tornava in c1 e sarebbe fallita l’anno successivo, a causa del disimpegno di Turi Massimino ed il subentro dei figli nella gestione. Iniziava ufficialmente l’epopea del san Filippo, oggi Franco Scoglio, lo stadio per costruire il quale in una notte di gennaio del 1991, in concomitanza con l’attacco statunitense all’Iraq nella prima guerra del Golfo con l’operazione Desert Storm, alla luce dei gruppi elettrogeni si spostò militarmente l’intera baraccopoli di san Filippo, si spianò mezza collina e ci si infilò a forza uno stadio dentro. Operazione iniziata con celerità quasi sospetta, ma che si concluse, a calci in culo, solo alla vigilia della prima partita della serie A, a settembre del 2004.
Solo quattro mesi prima, al Celeste andava in scena il canto del cigno, quel Messina-Como terminata tre a zero per i biancoscudati che ha significato la serie A. Da quel momento, il Celeste è rimasto come campo d’allenamento: quasi un peso, storico ma sempre peso, da sopportare per la società che già aveva le sue grane a gestire un mostro come il san Filippo. Al punto che, sotto la gestione del Messina FC targata Franza, per il glorioso “nuovo comunale Giovanni Celeste” era destinato a fare parte del “centro bipolare”: sport al san Filippo, sfruttamento commerciale al Celeste, che sarebbe stato smantellato per far posto a supermercati, centri commerciali e campetti in erba sintetica.Nemmeno la prima squadra ci si allena più. Un declino lento e inarrestabile: le società che si sono successe, da Lo Monaco in poi, non hanno mai avuto ben chiaro cosa farne del Celeste, e nell’attesa di capirlo lo hanno lasciato a morire, lentamente e inesorabilmente.
Adesso il Messina gioca nello stadio San Filippo-Franco Scoglio il più grande con il "Barbera" di Palermo dell’intera Sicilia, potendo vantare una capienza pari a 38.722 posti. E’ un impianto abbastanza recente: inaugurato nel 2004 nasce con l’intento di regalare un “teatro” moderno, confortevole, grande alla tifoseria giallorossa. Negli anni in cui si pensava alla realizzazione, infatti, nel vecchio “Celeste” – il quale ha ospitato per una vita le partite interne del Messina – non c’era sempre posto per tutti. E così, verso la fine degli anni ’80, l’Amministrazione Comunale progettò l’intera struttura, che prende il nome dal luogo in cui è stata costruita, la contrada San Filippo.
Il 17 novembre 2004 lo stadio ospitò, per la prima e finora unica volta, la Nazionale Italiana allora guidata da Marcello Lippi. L’amichevole contro la Finlandia terminò sul punteggio di 1-0 grazie a una rete di Fabrizio Miccoli.
Il 19 febbraio 2005 presentò il record assoluto di presenze della storia: la partita di campionato Messina-Juventus (terminata 0-0) si giocò infatti di fronte a 40 mila spettatori.
Il 23 giugno 2016, invece, l’impianto venne intitolato a Franco Scoglio, nato e cresciuto a Lipari e molto influente (come allenatore in tre diverse parentesi, ma non solo) e stimato nella città peloritana.
Nel corso degli anni, sin dalla sua esistenza, diversi sono stati i cantanti che questo grande impianto ha ospitato nei mesi estivi, regalando serate di gioia e festa all’intera area dello Stretto. Dalle performance (più volte) dei vari Pooh, Vasco Rossi e Jovanotti passando per Ligabue.
La struttura, che si trova nella zona sud della città, è interamente scoperta ed è divisa in due grandi settori. La prima, che comprende le Tribune A, B e C, possiede una forma simile a quella di un anfiteatro, con le due tribune e la curva collegate in un unico settore. La seconda, che ospita invece la Curva Sud, è staccata dalla restante e si poggia su di un edificio con all’interno numerosi servizi. Una parte della struttura è stata costruita al di sotto del livello naturale del terreno. L’impianto al suo interno, senza pista d’atletica, è stato pensato sul modello di quelli inglesi, con le tribune vicine al terreno di gioco e una visuale ottimale da parte degli spettatori. L’area di gioco è di 105×70 m, l’area totale dello stadio è di 114.640 mq, l’area di parcheggio è di 44.300 mq.
Autore: Redazione / Twitter: @tuttopotenza
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