A Pomarico, borgo lucano, non c'era un campetto da calcio
«Giocavamo su uno spiazzo sterrato - ricorda Franco Selvaggi -: nuvole di polvere e pietre a tracciare le porte, ma noi bambini lo chiamavamo San Siro. Credo che quel terreno gibboso mi abbia affinato la tecnica».
È partito da lì, negli anni Cinquanta, per diventare campione del mondo, incollato al pallone come quella volta a Giovinazzo, dove la Figc radunò i ragazzini più bravi di Puglia e Basilicata. «Eravamo un centinaio, io avevo 12 anni ed ero tesserato per la Gianni Rivera di Matera. Alle gare di palleggio andai avanti più di mezz'ora, mi chiesero di smettere. Vinsi una maglietta e un pallone, fui ammesso a uno stage a Coverciano».
Un segno del destino...
«Ancor di più se si pensa che mi accompagnò Andreolo, campione del mondo nel '38 che aveva sposato una ragazza di Potenza. Fu una settimana bellissima, durante la quale vidi la mia prima partita di Serie A: Fiorentina-Lazio 5-1».
Di lei si accorse la Ternana...
«Mi segnalò Rosa, che aveva giocato a Matera: "C'è un fenomenino, non fatevelo scappare". Partimmo alle 4 di mattina con la 124 scassata del presidente, pensavo a una gita e invece era un provino. Andò bene, ma ero titubante: mi convinse il milione di lire che andava ai miei.
Non navigavamo nell'oro, papà era magazziniere e mamma casalinga: a lei i tedeschi avevano ucciso in una rappresaglia il fratello e il padre che era accorso in suo aiuto. A Terni trovai un mondo nuovo, avevo 16 anni e non mi ero mai allenato. Altro che scuole calcio...».
Lei ne gestisce una.
«Con mio figlio Luca, abbiamo 250 iscritti. Dei ragazzi di oggi penso bene, non è vero che noi eravamo migliori, forse sono un po' viziati tra virgolette ma solo per effetto della società in cui crescono. A volte, piuttosto, un problema possono diventare i genitori: ripenso a mio padre che era orgoglioso di me, ma mi ha visto giocare per la prima volta quand'avevo 31 anni, a Torino».
Ricorda il primo gol?
«Come dimenticarlo? Alla Juventus. Scopigno, che in attesa di una panchina collaborava con Il Messaggero, scrisse: "Speriamo che questo talento non si sprechi" e quando lo prese la Roma mi ingaggiò. Non andò bene, lui si dimise presto e io mi infortunai, ero chiuso da campioni e non trovai l'ambiente giusto: giocai appena due partite».
Ripartì da Taranto.
«Cinque anni di B che non cambierei con 10 di Serie A: ero intoccabile, ma dopo la tragica morte di Iacovone, mio compagno, in un incidente, il presidente dismise. Gigi Riva mi volle con forza al Cagliari».
Fu lui a chiamarla Spadino?
«Leggenda. Spadino me l'affibbiò un compagno e non per il fisico, ma per la somiglianza con un attore di Happy Days. Che poi mi dipingevano minuscolo, invece ero 1,73. Da mezzapunta, Riva mi trasformò in centravanti: diceva che gli sarebbe piaciuto giocare con me e non volle cedermi alla Juve».
L'esperienza sarda le aprì le porte della Nazionale.
«Bearzot mi portò per la prima volta a Belgrado, c'erano 100 mila spettatori, e mi schierò titolare in un partita di qualificazione con la Grecia: credeva in me e per questo mi infastidisce una certa narrativa sul Mondiale, come se mi avesse trovato per strada o convocato perché non facevo ombra. Semplicemente voleva due uomini per ruolo e mi considerava alter ego di Rossi, veloce e tecnico: Pruzzo era più d'area».
Zero minuti, ma sente suo il Mondiale.
«Eravamo un gruppo unito. E i nomi di chi non ha giocato o giocava meno stridono con la parola riserve: Dossena, Vierchowod, Baresi, Massaro, Causio, Altobelli, Galli...».
In Spagna divideva la stanza con Causio.
«Ma passavo le notti con Tardelli, insonne come me: chiacchiere e partite a carte per combattere la tensione. Marco, ragazzo straordinario, sentiva molto la partita: se lo toccavi, prendevi la scossa».
Era legato anche a Rossi.
«Un fratello, non potevi non volergli bene. Partì male, ma lo sostenevamo tutti: sapevamo che si sarebbe sbloccato».
Successe con il Brasile...
«Tre gol dolorosi. Sa che anni dopo, a San Paolo per la Coppa Pelè, un taxista lo riconobbe e ci fece scendere?»
Vero che sua moglie Bruna aveva fatto il biglietto di ritorno non immaginando poteste superare il girone con Argentina e Brasile?
«Verissimo. Non solo lei. Gli hotel erano pieni, così divise la stanza con le mogli di Cabrini e Antognoni. Era anche incinta di Claudia, la nostra terza figlia dopo Luca e Marco».
Un aneddoto sulla notte del trionfo?
«Eravamo un po' brilli e giocavamo a pallone nella hall, quando notammo che mancavano Scirea e Zoff. Salimmo in camera e li trovammo in pigiama, valigia pronta e libro in mano. Straordinari. Se tutti fossero come loro, il mondo sarebbe migliore».
Dopo il Mondiale, il Toro.
«Due anni belli, due gol alla Juve - uno decisivo -, e l'emozione, pur senza segnare, del derby capovolto da 2-0 a 3-2. Mi voleva il Napoli, ma avevo scelto di restare, le cose cambiarono e finii all'Udinese con Zico. Ho giocato con tanti campioni, ma lui era di un altro pianeta: a volte lo applaudivamo in allenamento».
Chiuse all'Inter con Rumenigge...
«Avevo 34 anni, mi chiesero di sostituire Causio. Sapevo di essere destinato al part-time. In realtà però ho chiuso a San Benedetto, in Serie B: segnai 9 gol e ci salvammo». È rimasto nel calcio, da allenatore e presidente. «Belle esperienze, ma da tecnico devi scendere a compromessi.
A Catanzaro, primo in classifica, mi dimisi per problemi con un dirigente. In generale, per chi ha frequentato il grande calcio, ricominciare dal basso è dura: è un altro mondo e devi adattarti». Che pensa del calcio di oggi? «Dissento da chi lo ritiene più fisico. Negli anni Ottanta c'erano Van Basten e Gullit, Briegel che era un armadio con due cocomeri come polpacci...
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