La fase finale del campionato di calcio libico, spostata in Italia grazie a un accordo tra i governi dei due Paesi, si è trasformata in una tragicommedia calcistica. Sei squadre in gara, partite giocate a porte chiuse ma con accesso concesso a ultrà e ras del petrolio, continue risse in campo e fuori tra giocatori, allenatori, dirigenti, massaggiatori e persino tifosi: il tutto condito da caos organizzativo, tensioni politiche e problemi tecnici.

Domenica scorsa, allo stadio di Meda, la sfida tra le due favorite — l’Al-Ahly di Tripoli e l’Al-Hilal di Bengasi — non è nemmeno cominciata. Il motivo ufficiale? Il VAR non funzionava. Ma dietro lo stop si celava una questione ben più materiale: la Federazione libica non aveva ancora saldato i compensi dovuti ad arbitri e personale tecnico italiani. Per rimediare, si racconta che un funzionario si sia presentato con una valigetta piena di contanti.

Con il pagamento finalmente effettuato, la finale è stata riprogrammata per oggi, sempre a Meda, in un derby ad alta tensione tra la Tripoli del Governo di unità nazionale e la Bengasi dell’autoproclamato Esercito della Libia orientale.

Il torneo ha vissuto anche assenze clamorose, come quella dell’Al-Ittihad, club più titolato del Paese, un tempo legato alla famiglia Gheddafi. Il livello tecnico è stato descritto come un calcio “vintage”: difensori che spazzano, attaccanti giramondo come il nigeriano Sunday Akinbule, e tecnici stranieri dal passato esotico, come lo slavo Zoran Manojlovic.

Tensione, partite sospese per risse, polizia in campo, tifoserie in conflitto, continui blackout tecnici: uno spettacolo surreale che il nostro amico libico sintetizza con un sorriso amaro: “Questo è il nostro calcio”. Eppure, tra mille problemi, il pallone continua a rotolare, simbolo fragile ma resistente di un’unità ancora lontana.

Sezione: Mondo Calcio / Data: Mar 12 agosto 2025 alle 17:04 / Fonte: Tuttomercatoweb
Autore: Marco Laguardia
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