Tra luglio e novembre 2024, la Basilicata ha affrontato una delle più gravi crisi idriche della sua storia recente. Oltre 140.000 persone distribuite in 29 comuni si sono trovate a fare i conti con interruzioni del servizio idrico. Paradossalmente, ciò è avvenuto in una regione ricca di sorgenti e bacini, ma penalizzata da dispersioni idriche superiori al 65% (rapporto ISTAT 2022), infrastrutture obsolete e una gestione politica incapace di affrontare le cause strutturali del problema.
In questo contesto, emerge chiaramente il peso delle scelte politiche nazionali e regionali, che hanno contribuito a trasformare la Basilicata in una "zona di sacrificio", un territorio spremuto per risorse e progetti, senza un reale ritorno per le comunità locali.
La catastrofe annunciata: un paradosso idrico
L'emergenza idrica si è acuita in modo drammatico con il quasi prosciugamento della diga del Camastra, un bacino da 32 milioni di metri cubi ormai quasi vuoto. La situazione è stata definita “catastrofica” dagli stessi tecnici di Acquedotto Lucano, che gestisce la distribuzione fino alle abitazioni. Tuttavia, la gestione delle dighe, da cui dipende la risorsa primaria, è passata nel 2024 sotto il controllo di una nuova entità: la società “Acque del Sud” S.p.A. Istituita dal governo Meloni tramite il D.L. 44/2023 e resa operativa dal 1° gennaio, “Acque del Sud” ha sostituito il precedente ente pubblico EIPLI (Ente per lo Sviluppo dell'Irpinia, Puglia e Lucania). La grande novità introdotta è l’apertura al capitale privato: secondo l’articolo 5 dello statuto, il 30% del capitale sociale può essere ceduto a privati, in netto contrasto con l’esito del referendum del 2011, in cui 25 milioni di italiani – inclusi 270.000 lucani – hanno dichiarato che l’acqua deve restare un bene pubblico, senza possibilità di profitto.
A livello locale, la giunta regionale guidata da Vito Bardi ha gestito l’emergenza con soluzioni tampone, come l’uso di autobotti e il prelievo da fonti alternative, arrivando addirittura ad autorizzare alcuni giorni fa l’uso domestico delle acque del fiume Basento, decisione quantomai contestata. Tuttavia, questi interventi non hanno affrontato le cause profonde della crisi. I fondi del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), che prevedevano investimenti significativi per modernizzare la rete idrica e ridurre le dispersioni, sono stati in gran parte inutilizzati o destinati a progetti secondari, evidenziando una visione politica miope e clientelare.
A livello nazionale, l’apertura ai privati nella gestione delle risorse idriche rappresenta un grimaldello verso il totale smantellamento del referendum del giugno 2011. Tra l’altro proprio in questi giorni Forza Italia ha presentato un emendamento al decreto Ambiente grazie al quale vengono riaperte a pieno organico le porte alla cessione di quote dei gestori pubblici (leggi Alex Zanotelli e Corrado Oddi su Il Manifesto del 26 novembre 2024).
Basilicata: una zona di sacrificio
La crisi idrica del 2024 è solo l’ultimo capitolo di una lunga storia di sfruttamento ambientale ed economico che ha relegato la Basilicata al ruolo di "zona di sacrificio". La regione, nonostante le sue straordinarie risorse naturali, è spesso stata trattata come un’area dove concentrare attività ad alto impatto ambientale e sociale, con benefici marginali per le comunità locali.
Un esempio emblematico è rappresentato dal Centro Olio Val d’Agri (COVA), uno dei più evidenti esempi di territorio europeo che ha ceduto sovranità alle multinazionali del fossile, con ENI che domina la gestione del più grande giacimento petrolifero onshore d’Europa. Le royalties non hanno prodotto benefici strutturali per la popolazione, mentre “incidenti ambientali” come la contaminazione delle falde evidenziano il prezzo pagato in termini di salute pubblica e degrado territoriale.
Anche la vicenda di Scanzano Jonico del 2003 sottolinea come la Basilicata sia stata vista come una terra da sacrificare. L’allora governo Berlusconi propose di creare in questa località un deposito nazionale per le scorie nucleari. La proposta scatenò una mobilitazione popolare straordinaria, con migliaia di persone in piazza a difendere il territorio. Il progetto fu ritirato, ma la vicenda rimase simbolica: dimostrò come la regione fosse considerata una destinazione di serie B per progetti pericolosi e non desiderati altrove.
Infine, l’espansione delle energie rinnovabili rappresenta un altro capitolo controverso. Come scriveva Marco Griego su L’Espresso, in Basilicata la promozione delle energie rinnovabili, come l’eolico e il fotovoltaico, si è trasformato in uno dei paradigmi di "estrattivismo green". In Basilicata, l'espansione delle energie rinnovabili ha occupato terreni agricoli senza portare benefici economici alle comunità locali. Le risorse naturali vengono sfruttate senza ricadute positive per la popolazione, danneggiando il paesaggio e l'economia agricola, con i profitti che finiscono altrove.
Questi episodi riflettono un modello di sfruttamento che utilizza le risorse locali per generare profitti esterni, riproducendo logiche neocoloniali tipiche del Sud Globale: impoverimento locale, concentrazione dei guadagni altrove e marginalizzazione delle comunità.
La crisi climatica e i suoi riflessi sul Mediterraneo
A tutto ciò si aggiunge l’intensificarsi della crisi climatica, che come è noto sta rendendo l’intero Mediterraneo un’area particolarmente vulnerabile. Nel 2024, il Sud Italia ha registrato livelli di siccità estremi, con oltre il 69% della Sicilia e il 47% della Calabria in condizioni di emergenza. La produzione agricola, in particolare di grano duro e cereali, è crollata, con perdite fino al 15% rispetto al decennio precedente.
Il Mediterraneo è ormai riconosciuto come uno degli "hotspot" della crisi climatica, un teatro dove gli effetti del cambiamento climatico si manifestano con intensità eccezionale e con un'ampiezza che intreccia dimensioni ambientali, sociali e politiche. Secondo il fisico Alessandro Pasini, intervistato su Giudizio Universale, l’aumento delle temperature, l’erosione delle risorse idriche e la frequenza di fenomeni atmosferici estremi non sono più episodi isolati, ma processi strutturali che ridefiniscono l’intera geografia del bacino mediterraneo. Il riscaldamento in questa regione supera di quasi 2°C i livelli preindustriali, ben oltre la media globale, configurando uno scenario in cui siccità croniche, incendi di proporzioni senza precedenti e alluvioni lampo sono ormai parte integrante del paesaggio.
Questo quadro climatico si traduce in effetti socio-economici e politici di vasta portata, facendo del Mediterraneo uno dei punti di maggior sfogo dell’attuale regime di guerra globale. Conflitti diretti, come quelli in Palestina, Libano e Siria, non solo si innestano su fragilità preesistenti, ma sono esacerbati dalle dinamiche climatiche, innescando nuove forme di violenza sistemica. Tra queste, anche la “guerra dei confini” contro le persone migranti, che ha trasformato il Mediterraneo in un vero e proprio laboratorio necropolitico.
La Basilicata è un esempio di come le dinamiche locali e globali si intrecciano, mostrando che crisi climatica, economia e conflitti si influenzino reciprocamente in un circolo vizioso sempre più difficile da interrompere.
Autore: Redazione
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